Conversazione introduttiva in merito alla ricerca

Scuola di Dottorato di ricerca
Università degli Studi di Pisa
“Studi per la pace e risoluzione dei conflitti”
Sezione Analisi e risoluzione dei conflitti nelle relazioni interpersonali e interculturali Relazioni interpersonali e microconflittualità Progetto di ricerca
“Strategie formative per la gestione costruttiva dei conflitti.
Sviluppo delle competenze comunicativo-emotivo-relazionali nelle organizzazioni”
Intervista al Prof. Ugo Morelli
(a cura di Enrica Brachi)
Una visione del conflitto
Quali sono a suo avviso le principali cause che generano conflitto nelle relazioni interpersonali? Negli ultimi dieci-dodici anni ho orientato i miei approfondimenti alle neuroscienze sociali e ciò ha permesso di sviluppare una critica al cognitivismo tradizionale. Questa è una premessa epistemologica necessaria per comprendere la piega che ha preso la mia ricerca in generale e quella sul conflitto in particolare.
Il conflitto, il cum-fligere (l’incontro tra differenze) è costitutivo delle relazioni umane e non un incidente di percorso che ad un certo punto interviene nelle relazioni stesse. C’è una costante condizione di elaborazione dell’incertezza in ogni relazione, nel momento in cui un'autonomia individuale, che si approssima ad un’altra autonomia, rimane comunque autonomia. Il gioco di approssimazione parte dal fatto di essere l’uno all’altro costantemente irriducibili e l’elaborazione delle differenze è la condizione stessa delle relazioni. Questa è la ragione di base per cui si generano conflitti nelle relazioni interpersonali e ci corre l’obbligo di accreditare cittadinanza alla parola ‘conflitto’, non considerandola come un'eccezione, ma come un fattore costitutivo delle relazioni. Noi non staremmo comunicando se non ci fosse un gioco di approssimazione da realizzare, perché il nostro comprenderci sarebbe atonicamente dato e non sarebbe un comprenderci ma qualcosa che, per come siamo fatti – animali simbolici, semantici e comunicanti-non siamo neppure capaci di concepire. È per questo che, invece, il nostro comprenderci è il risultato di un processo continuo di approssimazione.
Il conflitto si situa tra un punto minimo ed un punto massimo, per cui il livello di approssimazione può implicare differenze profonde ed elevate (come accade per ragioni che possono essere identitarie, culturali, di interesse) o per ragioni minime. Ma l’espressione <<siamo completamente d’accordo>> io trovo che non abbia un correlato espressivo a livello esperienziale, ma che sia un modo di dire. La ragione per cui questo avviene la dice bene una poetessa coma Anna Achmatova: <<siamo l’uno all’altro irraggiungibili ed è per questo che la mia mano non smette di tremare sotto la tua>>. Questo è il punto principale della risposta alla domanda, anche se ci sono elementi più contingenti culturali, istituzionali, sociali, gruppali, in cui c’è più o meno disposizione a riconoscere le differenze e ad accedere al conflitto. In certi altri casi invece i sistemi di censura, di tacitazione, di negazione del conflitto dominano e la ragione per cui dominano è spesso riconducibile al fatto che non si ritiene di potervi accedere. La mia ipotesi è che si dovrebbe parafrasare <<se vuoi la pace prepara la guerra>> con l’espressione <<se vuoi la pace, accedi al conflitto e gestiscilo ( tenendo sempre conto che è diverso dall’antagonismo)>>. Se sviluppassimo una disposizione a gestire il conflitto e a dire meno spesso che siamo d’accordo, forse eviteremmo gli antagonismi tra persone e gruppi. La ragione principale è che siamo in un continuo, inesauribile, gioco di ambiguità costitutiva tra autonomia e dipendenza con gli altri. Se togliamo lo statuto di parola da evitare al conflitto e lo accettiamo come una parola che dovrebbe essere accolta con vantaggi, il conflitto diventa una buona parola. Si sta evolvendo il contrasto sociale, per cui abbiamo maggiori possibilità di essere informati, ma allo atesso tempo siamo anche più soggetti alla manipolazione, abbiamo maggiori possibilità di partecipazione sociale e quindi di presenza con più vincoli ai processi partecipativi. Quindi il gioco tra aspettative ed opportunità si è alzato di temperatura e questo genera maggiore conflittualità sociale.
Il conflitto si esprime a livello: intrapsichico, relazionale di coppia, gruppale, istituzionale, collettivo. Ciò che vedo, contrariamente a ciò che pensa il Prof. Cheli, è che l’accessibilità al conflitto sia calata, non cresciuta, soprattutto nella dimensione istituzionale, collettiva. Per esempio la disposizione a cum-fligere tra studenti e docenti all’Università… io ho l’impressione che viviamo in un tempo in cui rispetto a queste quattro parole chiave del mio ragionamento, pace, guerra, conflitto ed indifferenza, non si veda nessuno che alzi il dito e contesti… l’indifferenza tende a predominare e mi inquieta non poco, perciò trovo che sia un rilevante tema di ricerca.
Che cosa, secondo lei, contribuisce a far evolvere in chiave distruttiva, i conflitti? La ragione principale che sta alla base del degrado in chiave distruttiva dei conflitti è nei meccanismi di difesa e nelle resistenze ad accedere al conflitto. Si tratta di resistenze e difese legittime che devono essere analizzate e comprese. Noi tutti abbiamo difficoltà a fare ciò che va fatto e dunque a gestire ogni conflitto almeno a livello elementare, dal riconoscimento della conflittualità livello interindividuale, all’accesso alla conflittualità intrapsichica: per dirla con Woody Allen, ci capita spesso di non essere d’accordo con noi stessi., Ossia è difficile riconoscere le zone grigie del nostro mondo interno e poi le ragioni dell’altro. La paranoia individuale a vedere le colpe fuori di noi e mai dentro di noi è anche rinforzata dalle ragioni sociali e politiche. Con la ricerca abbiamo scoperto come, soprattutto per quanto concerne la dimensione gruppale, tenda a prevalere la posizione paranoide rispetto a quella depressiva: tutto ciò che non va è colpa degli altri! Se non pratichiamo l’istanza depressiva (per cui se ho un conflitto con te ho bisogno di riconoscere che in parte ho torto, che anche io forse.ho una responsabilità in ciò che sta accadendo) il conflitto degenera. Ritengo che le ragioni intrapsichiche siamo sostanzialmente importanti per considerare le ragioni per cui il conflitto degrada in antagonismo o in indifferenza, e poi ci sono i rinforzi sociali, per cui nelle relazioni e situazioni sociali la paura può diventare panico, il vuoto può diventare insopportabile. Tutto ciò favorisce l’insorgere della prospettiva distruttiva. Che cosa invece rende gestibile e costruttivo il conflitto? Ho esperienza di analisi e gestione del conflitto in istituzioni e in contesti sociali e trovo che al primo posto l’educazione dovrebbe dare cittadinanza al conflitto. Riconoscere il grande valore di favorire l’emergere di situazioni in cui uno più uno può far tre! Noi lavoriamo molto male nel campo dell’educazione alla conflittualità. Non evidenziamo la conflittualità costitutiva insita in ciò che esiste, a partire dal modo in cui educhiamo intorno ai valori e ad ogni disciplina.
Ad esempio a scuola studiamo la geometria euclidea, per scoprire poi che ci sono altre geometri. Sempre a scuola siamo indottrinati ad una religione come se fosse “la” religione, per scoprire poi che le religioni sono tante e che tutti siamo accomunati dalla tendenza a creare il sacro. La prima cosa da fare è sviluppare quindi un’azione educativa per far riconoscere il valore generativo del conflitto. In secondo luogo è importante usare specifici strumenti fondamentali per l’elaborazione del conflitto come il gioco, il roleplaying, l’arte. Per scoprire il valore di altri stili e gusti, dunque, abbiamo bisogno di sviluppare una pluralità di linguaggi. Quando ci sono trova a mediare un conflitto e a cercare di facilitarne l’evoluzione anche la musica come “mediatrice” può permettere il dialogo, per scoprire che anche a parlare non ci si può far del male!Abbiamo una mente plastica (e qui le neuroscienze ci vengono in aiuto). Umani si diventa e quindi il modo in cui diventiamo umani è influenzabile in maniera significativa, certo non ingegneristico-deterministica, con l’educazione! In realtà noi non vediamo molti investimenti educativi in questa direzione… per cui spesso prevale l’antagonismo.
Ha delle immagini, delle metafore, che rappresentano la conflittualità, sia distruttiva, che costruttiva? Racconto due aneddoti che mi vengono in mente.
Un’immagine che mi ha generato un certo disagio. Trento in Piazza Duomo (città dove c’è un buon livello di accoglienza verso gli stranieri). Ero seduto ad un bar con un amico. Sono arrivati tre marocchini, di quelli che sono in Italia da tempo e con loro c’era un quarto vestito come uno che è appena arrivato dal Marocco, con un vestito “tipico”. Il cameriere ha portato loro le aranciate e delle arachidi in un vassoietto con un cucchiaio. Il marocchino col fez, probabilmente appena arrivato in Italia, ha fatto il gesto per riempire il cucchiaino di arachidi e portarlo alla bocca. Il cameriere lo ha fermato e gli ha spiegato che non si fa così, ma che le arachidi si versano in mano con il cucchiaio per poi mangiarle. A questo punto il marocchino, con il suo francese raffinato, ha detto agli altri tre: << ma come, sono venuti da noi per dirci di non mangiare con le mani, adesso noi mangiamo con il cucchiaio e loro ci dicono di mangiare con le mani, ma non possiamo mai fare ciò che vogliamo noi?!>>. Un’immagine di Nairobi, in un quartiere in cui le persone vivono di rifiuti. Nel tentativo di offrire ai bambini di strada una vita diversa si svolgono azioni difficili e spesso utili. Per avere una minima autonomia e i diritti civili elementari i bambini hanno bisogno di un documento d’identità. Un problema drammatico, che visto da qui appare addirittura ridicolo. Per avere un documento d’identità ci vuole una fotografia, ma per gli animisti l’impressione della propria immagine sulla carta significa perdere l’anima! Fotografare gli animisti è una tragedia, l’angoscia sale alle stelle, nessuno lo vuole fare, è un dramma. Costruire una situazione in cui si riconosce che imprimere l’immagine sulla carta non significa perderla, anzi valorizzarla e avere diritti e libertà, è un percorso molto difficile che richiede la capacità di attraversare conflitti impegnativi, spesso affrontabili solo con l’aiuto degli stregoni. Il conflitto svolge anche funzioni positive? È fondamentale accedere al conflitto quando vale la pena, perché c’è una pena nel riflettere e sostare, nel non reagire a caldo; ma evitare il conflitto o negarlo costa di più che gestirlo.
La generatività del conflitto esige investimento per l’accessibilità e l’elaborazione. A partire dalla prima volta che venne usata questa parola la sua generatività è stata evidente. L’uso originario della parola lo dobbiamo al grande autore del “De rerum natura”, lo scienziato e poeta Lucrezio, che descrivendo l’origine della pianta dice che il seme deposto nella terra incontra l’humus e la corruzione del seme con il terreno farà nascere la pianta. Per indicare il processo di “corruzione” Lucrezio usa il termine “cum-fligere”. Potremmo parlare della scissione delle cellule, così come di due persone o popoli che hanno punti di vista diversi. Solo quando dall’antagonismo accederanno al conflitto gli israeliani ed i palestinesi troveranno un modo per vivere senza uccidersi.
La risposta è, quindi, nettamente sì, senza trascurare tutti i costi della gestione del conflitto.
Enrico Cheli sostiene che l’aumento della conflittualità è legata al processo di democratizzazione, come evidenzia nel suo libro Le relazioni interpersonali (Xenia, 2009).
“Una delle problematiche più “calde” della rivoluzione interpersonale è proprio l’aumento dei conflitti manifesti e l’inasprirsi delle forme che essi assumono: conflitti tra fidanzati, tra mogli e mariti, tra fratelli, tra studenti e insegnanti, tra figli e genitori, tra lavoratori e datori di lavoro, tra cittadini e istituzioni, tra individui appartenenti a culture e religioni diverse e via dicendo. In realtà motivi di conflitto esistevano anche tra i nostri antenati, ma quasi mai davano luogo a manifestazioni evidenti ed effervescenti come oggi: il dissenso e l’insoddisfazione degli individui e dei gruppi veniva raramente espresso a chiare lettere, scivolando per lo più nel rancore o nella rassegnazione, e quindi il conflitto non prendeva quasi mai la strada del confronto aperto, dello scontro, della ribellione o della separazione, ma piuttosto quella del silenzio, della sopportazione rassegnata o del conflitto sotterraneo. La società patriarcale autoritaria regolava infatti i conflitti secondo la legge del più forte, e così tra marito e moglie la ragione era di norma assegnata a priori al primo, e lo stesso valeva per qualsivoglia disputa potesse nascere tra insegnanti e studenti, tra genitori e figli, tra datori di lavoro e lavoratori, tra governanti e sudditi. Inoltre i valori dell’obbedienza e della rinuncia – fortemente legittimati anche dalla religione - permeavano a tal punto l’educazione/inculturazione di ogni membro della società che molto spesso non c’era neppure bisogno di applicare la suddetta regola, poiché quasi nessuno tra i soggetti deboli osava entrare apertamente in conflitto con un soggetto forte o anche solo pensare che ciò fosse possibile.
Solo in una società democratica il conflitto può venire allo scoperto, poiché vi è – almeno sulla carta – parità di diritti tra i diversi soggetti e ognuno di essi ne è in qualche misura consapevole. Una delle finalità di fondo della democrazia è proprio quella di gestire in modo equo, trasparente e costruttivo i vari tipi di conflitto – ideologici, economici, di potere, di finalità, di carattere etc. - che inevitabilmente si generano tra le persone, tra i gruppi, tra le classi sociali”. È d’accordo con questa visione? Cosa potrebbe aggiungere o obiettare? Condivido in parte il ragionamento. È indubbio che la democrazia sia un modello fragile, ma in questo c’è anche la sua forza, la sua ragion d’essere. Le decisioni “ottimali” sono prese da uno. Nel momento in cui siamo in due abbiamo già un problema di approssimazione e di accordo verso scelte sub-ottime. Il demos è fatto di molti. Prendiamo ad esempio la crisi finanziaria: ad un certo punto una parte ha prevaricato tutte le altre. Una maggioranza senza voce a fronte di una minoranza che deteneva la voce. Io e te sappiamo che decidere in gruppo è più faticoso e richiede più tempo. Attenzione però a dire che la democrazia è portatrice di maggior conflittualità. Se per conflittualità si intende la generatività di cui sto cercando di delineare fino ad ora, allora va bene. Se per conflittualità si intende litigiosità, aumento della disposizione a far prevalere i propri interessi, la riduzione della disposizione all’ascolto, … allora emerge una nota critica. Dipende da come si fa ad elaborare la pluralità di voci, altrimenti si rischia di creare plutocrazia, oligarchia, monarchia. Se si sviluppa un dialogo tra soggetti deboli con cui puoi vincolare i soggetti forti, questa è la democrazia. L’alternativa qual è?Potrei aggiungere che noi forse abbiamo fatto degradare la democrazia in democraticismo, in partecipazionismo, in assemblearismo (ricordo una storia del libro di lettura alle elementari il cui titolo era : “Troppa grazia sant’Antonio”, e parlava di uno che, essendo basso di statura si rivolge al santo perché gli faccia fare un salto sufficiente a salire sull’asino, ma riceve una grazia eccessiva, salta troppo in alto e finisce per terra dall’altra parte).
Abbiamo bisogno di integrare l’esercizio della democrazia con l’esigenza di riconoscere il valore dell’autorità, come auctor, augere, come capacità di emettere segnali attendibili. Ad esempio all’Università come si fa a difendere la valutazione del merito, nel senso dei gesti, delle azioni, dei programmi? È necessario un principio di autorità basato sulla partecipazione, altrimenti tutto degrada. Per confliggere efficacemente è necessario un principio dell’autorità, condiviso e legittimo, non uno che urla più forte dell’altro.
In questo processo c’è un ruolo fondamentale, quello del “terzo”, che può facilitare le dinamiche conflittuali. Percezione del cambiamento socioculturale
Negli ambienti in cui lei lavora ha riscontrato negli ultimi anni cambiamenti rispetto alla frequenza, all’intensità e alle modalità con cui si esplicano i conflitti? Nettamente sì! Ho riscontrato un calo nella disponibilità ad assumersi la responsabilità a mettersi in gioco. L’ho riscontrato nelle relazioni di genere, o all’interno dei gruppi di ricerca, a partire dal linguaggio che si usa. Riscontro inoltre una più bassa intensità ed una caduta delle modalità con cui si accede ai conflitti per poi poterli elaborare. Il passaggio dal conflitto al mugugno e alla paura, (“pur di non perdere il lavoro rimango in silenzio”) è una situazione molto diffusa. Quante volte si vedono gli studenti in aula che dicono qualcosa che vada in direzioni conflittuali? Non accade quasi mai e domina molto spesso il “quieto vivere”. Ho osservato un netto degrado dell’accessibilità al conflitto, e della frequenza con cui si accede al confronto. Osservo pure un calo dell’intensità con cui si esprime un dissenso a fronte di una caduta delle strategie. Anziché mugugnare e urlare, e poi magari non giungere a nulla, spesso manca la capacità di darsi una piattaforma, una strategia per agire. Il cambiamento lo vedo e mi preoccupa molto.
Che cosa è cambiato, nella sua pratica professionale, negli ultimi anni rispetto alle richieste d’intervento, di formazione, di consulenza? L’offerta influenza la domanda. È cambiato molto! Oggi la “peste bubbonica”, che va sotto il nome improprio di “consulenza”, che vende lustrini, le soluzioni sempre “del secolo”, quelle che entro sera risolvono i problemi, quella “peste” sta ammorbando la realtà, e questo cosa comporta? Se un’istituzione vuole rivedere la propria organizzazione e esprime una richiesta, ad esempio quella di sviluppare una comunicazione efficace, e tu dici: “dobbiamo fare un'analisi, bisogna capire le dinamiche, comprendere la cultura, studiare la questione”… poi viene da me ed io dico: “noi abbiamo il modello “topo gigio che corre”, meglio se lo dico in inglese, e in quattro ore, con gli strumenti eccellenti (meglio se veloci) risolviamo il problema”, secondo te cosa accade? Secondo te chi comprano te o me? Abbiamo delle responsabilità! Ed è necessario analizzare chi sono gli avversari? C’è un’ampia zona grigia di irresponsabilità ed è cambiato molto! C’è un degrado… la maggior parte è rivolta alla ricerca del Prozac di turno: soluzioni immediate purchè funzionino subito; la formazione “spettacolare” (il “fast and enjoy training”, che renda felici e sia rapido); una consulenza che si pieghi sulla domanda del committente. Tutto ciò significa rinunciare alla costitutiva conflittualità di ogni azione di consulenza. Con Carla Weber abbiamo scritto “Passione e apprendimento” per l’editore Raffaello Cortina. In quel libro l’apprendimento è inteso come una continua, sistematica, elaborazione del conflitto.
Un punto di vista sull’utenza
Chi sono i destinatari di possibili interventi di educazione al conflitto e alla sua evoluzione? Sostanzialmente tre. Negli insegnamenti nei corsi all’Università, a Bergamo “Psicologia del lavoro e dell’organizzazione”, a Venezia “Innovazione e creatività”, a Trento nel Master of Art and Culture Management che dirigo. Un secondo contesto è quello aziendale. L’azienda può essere un laboratorio importante e attualmente sto cercando di sviluppare un lavoro attento sul tema dell’accessibilità e generatività del conflitto, partendo da una domanda: quali sono i costi della non gestione del conflitto e delle situazioni conflittuali?Il terzo contesto è quello teorico. Abbiamo bisogno di una teoria del conflitto e dei vincoli all’accessibilità al conflitto, per comprendere gli effetti negativi dell’inaccessibilità sulla creatività e l’innovazione. Che tipo di aiuto viene richiesto? Le situazioni sono molto diverse. La domanda manifesta è molto diversa nei tre contesti che ti ho descritto, non è mai subito quella effettiva. In prima battuta é sempre un po’ “sporca” e va aiutata ad emergere per la sua effettiva natura. In azienda ti chiedono di sedare i conflitti. non di aiutare ad elaborarli, vorrebbero che non ci fossero, prima di scoprirne il valore.
Nei contesti internazionali ciò che si vuole è la pace, si gioca sempre su pace o guerra, non è sempre riconosciuto il fatto che è la gestione di situazioni conflittuali che può produrre situazioni di collaborazione e cooperazione. La parola “pace” non è pacifica diceva Luigi Pagliarani; genera inquietudini, domande che portano a situazioni nevrotiche. Mi piace la comunicazione tra autonomie che tenda a soluzioni provvisorie, sub-ottime ed approssimative, che avvicinano, nel senso profondo del termine.
La richiesta è spesso quella di un aiuto risolutivo che, tendenzialmente, chi chiede aiuto vorrebbe ottenere senza mettere in gioco se stesso! Qual è l’atteggiamento degli utenti nei vostri confronti? All’inizio è pieno di aspettative, poi tende a divenire critico o addirittura di rifiuto in certi casi e se per quella porta stressa si accede alla costruttività, allora diviene di riconoscenza e riconoscimento. Il passaggio è stretto, ma si tratta di un passaggio indispensabile! Si lavora per prepararsi al conflitto successivo.
Quale importanza viene assegnata nelle aziende che lei conosce all’empowerment delle competenze comunicativo-emotivo- relazionali?@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@Ho visto nascere questo approccio con un occhio, che è stato critico fin dall’inizio, pur avendo avuto grande considerazione del movimento “black power”, e del percorso sociale e politico di emancipazione femminile, alla fine degli anni sessanta del ventesimo secolo. Quando il concetto di “empowerment” è stato piegato con l’ingegnerizzazione applicativa, è diventato una formuletta, non sempre, ma spesso è stato così. In tal modo il concetto ha perso la sua aura ed il suo smalto. Nel mio libro “Incertezza e organizzazione”, pubblicato nel 2009 con Raffaello Cortina Editore, analizzo l’incertezza come fattore costitutivo ed uno dei fattori considerati riguarda le asimmetrie nelle organizzazioni. Esistono poteri sovralegali (secondo la categoria di Carl Schmitt), non soggetti alla legittimazione, in cui uno può fare ciò che vuole. In queste circostanze l’empowerment lascia il tempo che trova. Se io sono un tuo dipendente e tu mi dici di praticare l’empowerment… c’è una contraddizione interna. Ai negri americani il fatto di dire: “No, io non mi alzo”… non glielo ha detto nessuno! Faccio la tara al concetto sia di empowerment che al concetto di competenze comunicativo-emotivo- relazionali. L’emozionalismo è diventato di moda. Siamo sempre in relazioni e contesti emozionati; ciò che diventa rilevante è come vengono gestite e quanta cittadinanza trovino le emozioni nelle relazioni e nelle organizzazioni. L’attenzione è altissima nelle aziende, ma purché in funzione dell’obiettivo prestabilito! Questo è il tentativo di ingegnerizzazione di aspetti anche molto profondi, ma non solo è eticamente sconsigliabile secondo me, ma non funziona, richiama il doublebind di Gregory Bateson. È un conflitto fondamentale oggi che ci riguarda, come consulenti, formatori, ricercatori… ma perché? Perché non possiamo aiutare nessuno… Aiutare significa aiutare ad aiutarsi! Io distinguo, come Paulo Freire, l’educazione come pratica di libertà. Non c’è etica, se non c’è libertà; non c’è etica senza principio di responsabilità di tutti coloro che sono coinvolti. Se il potere è 99 a 1 non si può cavarsela solo dicendo all’uno che deve empowerizzarsi.
Spesso purtroppo si riconosce una grande importanza a parole alle competenze comunicativo-emotivo-relazionali nel senso che si è scoperto che sono diventate una buona merce, e si vorrebbero trattare in azienda come un buon computer, prescrivendole. Prescrivere in questo campo è ridicolo! L’empowerment si potrebbe realizzare…, ma le scale si iniziano a spazzare dall’alto! Strategie d’intervento, modelli e metodologie
In università cerco di portare dentro i corsi i temi del conflitto come componenti paradigmatiche del lavoro, dell’innovazione e della creatività. I fenomeni possono essere visti come intrisi di conflittualità. È possibile intendere, infatti, la cooperazione lavorativa come un processo conflittuale, o intendere la “creatività”, il breakdown rispetto all’ordine precedente, come un processo conflittuale; lo stesso vale per l’“innovazione” intesa come la generazione di discontinuità radicali rispetto agli ordini precostitutivi. A Bergamo il conflitto viene presentato come fattore costitutivo della vita organizzativa(anche se spesso negato) e, quindi, il conflitto accompagna il percorso didattico e di ricerca ed è un carattere costante.
Il secondo ambito è quello aziendale. Nel sistema cooperativo trentino e, in particolare, in Formazione Lavoro, con seminari d’aula e interventi nelle istituzioni organizzative. In Trentino è nata da un anno la “Scuola per il governo del territorio e del paesaggio” che si occupa di rifigurazione del paesaggio e di riconfigurazione dei processi ambientali, con problematiche connesse al clima. Stiamo sviluppando azioni formative con attenzione al conflitto e alla mediazione. Concretamente che cosa faccio: un lavoro di shadowing, di accompagnamento e c’è molta formazione per creare le premesse concettuali e dare cittadinanza al conflitto… è un lungo lavoro di socializzazione finalizzato al riconoscimento di quali sono i costi della non gestione del conflitto. Si deve passare da tutte le parti. Il problema non è abitare una relazione a due, ma stare nel triangolo, il committente è implicato nel sistema di cui denuncia qualche limite esprimendo una domanda; è un lavoro clinico, altrimenti si rimane in superficie. Tutti sono implicati e non c’è nessuno che è fuori! La prima è una fase analitica, per poi restituire gli esiti di un certo esame di realtà, verificando se sono condivisi e poi si inizia a lavorare sulla piccola parte condivisa; molto dipende da cosa si riesce a fare facendo, perché le situazioni sono tutte diverse.
I modelli teorici sono sostanzialmente transdisciplinari. La psicoanalisi ci aiuta a comprendere che tutto ciò che mettiamo in atto è abitato dall’ambiguità del mondo interno, siamo autonomi e dipendenti e questo è alla base del nostro processo esistenziale e delle ansie che fondano i modi in cui elaboriamo le nostre difficoltà: i desideri di autonomia e l’essere comunque dipendenti da qualcuno in quanto così ci riconosciamo. Bion con il grande lavoro sul conflitto, e il riconoscimento che il conflitto ha bisogno di conoscere e di negare fornisce una pista decisiva. L’elaborazione di tutto in chiave Nasciamo e scopriamo di essere soli e allo stesso tempo scopriamo di non farcela da soli.
Le neuroscienze e l’orientamento epistemologico della complessità, praticato con la creazione e gestione della rivista Pluriverso ci hanno portato ad approfondire i fondamenti neurobiologici del comportamento. Quegli orientamenti sono diventati decisivi e ciò mi ha portato a confliggere con l’approccio cognitivista, con il concetto di mente solo computazionale. La neurofenomenologia ci aiuta a riconoscere la mente come ciò che il cervello fa!Un riferimento fondamentale per i processi educativi è la ricerca del significato. Ho lavorato seguendo con attenzione gli insegnamenti di Jerome Bruner: noi siamo animali sematici e la coscienza di secondo ordine ci porta sempre sull’orlo di ciò che siamo. La tensione a ricercare il significato, l’istanza estetica che mi porta ad andare oltre ciò che sono già, è decisiva e ci distingue dalle scimmie antropomorfe. Psicanalisi, neuroscienze ed antropologia, in quanto la mente non solo è incorporata, ma inculturata. Vale certamente anche la propria storia: nella tradizione ebraica essere d’accordo è disdicevole, in altre è vero il contrario!Io ho vissuto una vita molto intensa! Quali sono le principali metodologie adottate? Lewin è l’origine di quasi tutto. L’action research (con la rivista Animazione sociale del gruppo Abele con cui ho collaborato ho scritto alcuni saggi sul tema) è l’idea di riconoscere che il sistema interessato contiene in sè le potenzialità per rispondere ai problemi che porta e che in particolare l’azione endogena sia il punto di partenza; certo i sistemi devono poi innestare azioni esogene, ma prima di tutto i sistemi umani vanno ascoltati e riconosciuti ( con i loro vincoli e le loro possibilità) per poter intervenire. La ricerca azione dunque con tutti i suoi attrezzi: analisi preliminare, creazione di gruppi che riconoscano le loro conoscenze; ( mi sono laureato con Gianni Pellicciari e ho potuto imparare e sperimentare la metodologia e le tecniche di ricerca; abbiamo fatto interventi di medicina del lavoro in fabbrica con operai che praticavano il riconoscimento delle metodiche spontanee. scienza e d esperienza; l’azione quotidiana “gronda” di sapere); restituzione, ma poi c’è la visione consulenziale alla Edgar Schein della consulenza (legata allo sviluppo organizzativo basato sul metodo clinico), dell’aiutare ad aiutarsi, la pratica dell’astensione, e così via. Perciò mi impressionano le modalità deterministiche e prescrittive; ne ho visto i fallimenti, ma anche gli arricchimenti (oggi guadagna di più chi vende Prozac, che chi fa psicoterapia psicoanalitica!).
Quali sono, secondo lei, le strategie formative, di consulenza, di facilitazione più efficaci per gestire costruttivamente i conflitti? Ho una mentalità scientifica, ma non scientista. Sono partito da una dimensione analitica, programmatoria di ciò che doveva essere fatto, per scoprire che ciò che avevo in mente era basato “sulla saliva, sui contenuti”, per arrivare poi piano piano poi a scoprire cose che attualmente predominano… la fisicità, l’umorismo, il divertimento il gioco, il teatro, per la gestione dei conflitti. Ho imparato che la drammatizzazione dei fenomeni, sotto la forma ludica, umoristica, drammatica è fondamentale. Tra gli strumenti dunque il gioco, l’outdoor, la musica, per scoprire quanti sono i punti in comune. Il conflitto essendo ad alto tasso di emotività necessita di passare da queste strade. Quale dovrebbe essere, secondo lei, ai fini di una gestione ottimale dei conflitti, il ruolo delle competenze comunicativo-emotivo-relazionali nelle organizzazioni? Dobbiamo riconoscere cittadinanza alle emozioni. Il primo conflitto sta nel riconoscere la non cittadinanza delle competenze comunicativo-emotivo-relazionali nelle organizzazioni. Perché non sono riconosciute o se lo sono, sono viste come prescrivibili? Non esistono persone distratte, ma persone incapaci di gestire l’attenzione. Esistono molte ricette, in una scuola si è introdotta l’ora di conflitto, ma invece non si riconosce che il conflitto non è unaparola, ma è una prassi.
Io sono in grado o no di ascoltarla quell’emozione? Si parla di una prassi esistenziale.
Sono centrali le emozioni, anzi sono la vera materia prima, ma è importante portarle al centro. La teoria è uno dei principali meccanismi di difesa rispetto al conflitto. Visioni per ben-essere, la differenza che fa la differenza
Secondo il suo punto di vista che cosa crea la differenza per ben-essere nelle organizzazioni? Trovo che il benessere non sia una categoria che possa essere analizzata separatamente dall’attenzione a come si sentono gli individui nelle organizzazioni. Non si può parlare di benessere se non in rapporto a come è distribuito il potere ( non nel senso che dovremmo essere tutti uguali, ma nel senso che c’è un buon esercizio del potere, cioè - per dirla con Bion - non un potere basato sul dominio, ma su una forma “sufficientemente buona”, basato sul conflitto e la condivisione, stante, ribadisco, la necessaria autorità, affinchè un’organizzazione funzioni). Se abbiamo voce ci sentiamo meglio!La seconda questione accanto al potere è la partecipazione ai processi che riguardano le persone; è importante, quindi, considerare quanto ci sentiamo protagonisti della nostra esperienza, altrimenti gli interventi diventano azioni da cosmesi; altrimenti le persone conducono nelle organizzazioni una vita magra per tutto il tempo, poi entrano in una macchina orgasmatica, l’intervento organizzativo o formativo, per poi tornare alla solita vita.
La differenza per ben-essere è dovuta, tra l’altro, sostanzialmente a quattro cose:- Che predomini o no una buona forma di gestione del potere.
- Che ci sia la possibilità di partecipazione, e quindi di avere o non avere una voce.
- Che ci sia attenzione all’alterità e non all’indifferenza. - Che sia accessibile o meno il conflitto.
Il ben-essere non è una premessa, è una conseguenza.
Che cosa oggi ha più valore a livello strategico nelle attività di consulenza e formazione? Noi abbiamo bisogno di riconoscere che intervenire significa “violare” l’equilibrio di un mondo che non è il nostro e ciò esige che si fagisca all’insegna della responsabilità, non solo verso gli altri, ma con noi stessi. Agisco o non agisco per moltiplicare le possibilità o agisco per indottrinare, ricondurre i comportamenti ad un format prestabilito? È necessario che io consideri il modo di mettere in atto le mie strategie per intervenire; è fondamentale che io pratichi “le arti di divenire inutili”. L’emancipazione dell’altro significa che io fatto bene se sono divenuto inutile, che in termini profondi è l’esercizio della morte. Questo è ambiguo e l’ambiguità non è una risorsa facile da abitare. Potrebbe citarmi almeno tre autori particolarmente significativi per il suo lavoro? Gregory Bateson è stato fondamentale, la sua è stata ed è una straordinaria compagnia. La relazione tra mente e natura e l’emergere di un paradigma che ponga al centro la relazione nella vita e nell’apprendimento vengono dal suo insegnamento.
Gerald Edelman con il libro “Sulla materia della mente” mi ha aperto la testa… uno di quei turning point da cui non torni più indietro.
Jerome Bruner, con “La ricerca del significato” in particolare e poi con “La mente a più dimensioni”, mi ha curato e spero guarito dal cognitivismo. Le scienze cognitive sono semantiche e fenomenologiche, non computable. Ha un’indicazione esemplare per l’intervento con cui il conflitto può diventare una risorsa per il cambiamento? Mettere il fallimento nell’ordine delle possibilità. È una ferita narcisistica da tenere sempre aperta. Come faccio io a presumere che ciò che sto facendo produrrà un processo collaborativo e non antagonista? Se lo presumo non presto attenzione al sentire che quel segnale non va e rischio davvero di sbagliare. C’è un aspetto particolare che caratterizza in modo originale il suo approccio e lo differenzia dagli altri? Qui si corre il rischio narcisistico… L’essere un animale politico. Ritengo che avere sempre in testa che cosa posso farci io, sia un dato che mi aiuta ad andare avanti anche quando uno dice: ma senti lascia perdere… perché quando accade che qualcuno che non si era mai dato voce, riesce a darsela, allora finalmente ci si può dire: forse valeva la pena. Qui veramente dietro la scienza c’è la politica, un certo modo di concepire la vita. Bernard Shaw dice che <<l’umanità si divide in due parti: quelli che si adattano al mondo e quelli che cercano di adattare il mondo a se stessi>>. Non per diventare i demiurghi del mondo, ma per cercare di fare ciò che va fatto fino a prova contraria. La scienza non è neutrale, è connessa all’esperienza, è una pratica umana che deve fare necessariamente i conti con gli effetti delle proprie azioni. Quando sei "terzo", sei più responsabile degli altri, in quanto in una certa misura, gli altri dipendono da te.

Source: http://www.ugomorelli.eu/doc/intervistamorelli.pdf

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Int Urogynecol J (2011) 22:395–400DOI 10.1007/s00192-010-1252-8Treatment choice, duration, and cost in patientswith interstitial cystitis and painful bladder syndromeJennifer T. Anger & Nasim Zabihi &J. Quentin Clemens & Christopher K. Payne &Christopher S. Saigal & Larissa V. RodriguezReceived: 12 June 2010 / Accepted: 4 August 2010 / Published online: 2 September 2010#

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